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Cristianesimo: Fardello o Benedizione?

Circa 2000 anni fa, in una remota zona del vasto impero romano, Gesù Cristo venne al mondo, circondato dall’oscurità spirituale. Non ci è giunta alcuna testimonianza scritta riguardo all’evento, se non ciò che è riportato nella Bibbia.

All’epoca nessun veggente sarebbe mai stato in grado di prevedere l’enorme influenza che la vita e gli insegnamenti di Gesù avrebbero avuto sul mondo. La Sua opera, più di qualsiasi altro evento mai accaduto, era destinata a cambiare radicalmente la storia dell’uomo.
Gesù ci ha mostrato un nuovo modo di vivere, attraverso una serie di principi diametralmente opposti a quelli che erano i valori dell’epoca, tanto da essere considerati estremi dai capi religiosi di allora e sorprendenti persino dai Suoi discepoli.

Un mondo in cui la schiavitù era la norma

I primi discepoli di Gesù furono tutti ebrei, anche se la società di quel tempo era fortemente influenzata dalla cultura romana e da quella greca. Poiché i regni greci che succedettero all’impero ellenistico di Alessandro Magno vennero inglobati nell’impero romano, molti degli elementi che caratterizzavano la cultura ellenistica finirono per essere assorbiti anche dalla società romana.
Il greco, per esempio, rimase per molti secoli la lingua ufficiale in buona parte del mondo allora conosciuto. Anche il Nuovo Testamento, originariamente, era scritto in greco.
Nella cultura greco-romana di allora mancava quel senso di decenza e moralità che oggi diamo per scontato. Ad esempio, i filosofi greci Aristotele e Platone ritenevano che molti esseri umani fossero remissivi di natura, e che per tanto fossero inevitabilmente destinati alla schiavitù.
Lo scrittore Dinesh D’Souza ci spiega la visione che i filosofi greci avevano dell’uomo comune: «Omero ha deliberatamente escluso [l’uomo comune] dai suoi poemi, concentrandosi esclusivamente sulla vita delle classi alte, e se anche talvolta faceva la sua comparsa un personaggio appartenente alle classi inferiori, era unicamente in qualità di servo. Anche Aristotele riteneva che l’unico destino a cui i poveri potessero mai aspirare fosse la schiavitù» (What’s So Great About Christianity, 2007, pag. 56).
Questa mentalità venne poi assorbita dalla cultura romana. «L’impero romano contava ben 60 milioni di schiavi, considerati dalla legge alla stregua di oggetti, e non di esseri umani, e in quanto tali privi di qualsiasi diritto» (William Barclay, The Daily Study Bible Series, 1976, Vol. 14, pag. 208).
Gesù, invece, non nutriva alcun pregiudizio nei confronti dei poveri e degli oppressi. «I Suoi primi discepoli furono pescatori e artigiani. Egli trascorreva il Suo tempo in mezzo alla gente umile, parlava con locandieri e prostitute, con i poveri, con gli ammalati e con i bambini» (D’Souza, pag. 56). L’episodio riportato in Marco 2:16 ci descrive lo sdegno di scribi e farisei quando vennero a sapere che Gesù mangiava con gli «esattori delle tasse e i peccatori».
I discepoli di Gesù, alla fine, accettarono l’idea che tutti i membri della loro comunità, la prima Chiesa nascente, fossero uguali di fronte a Dio. L’apostolo Paolo scrisse: «Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3:28 e Colossesi 3:10-11).

L’insegnamento di Cristo: tutti sono uguali di fronte a Dio

Il concetto cristiano dell’uguaglianza tra uomini liberi e schiavi era rivoluzionario per quell’epoca, e questo causò probabilmente delle situazioni spiacevoli all’interno di alcune comunità cristiane. «E’ plausibile che, almeno nei primi tempi, alcune congregazioni fossero capeggiate dagli schiavi, e che i padroni fossero invece dei semplici membri. La situazione che si venne a creare era assolutamente senza precedenti» (Barclay, pag. 212).
Con la nomina degli schiavi a capo delle congregazioni c’era il rischio che si verificassero episodi di rivalsa nei confronti dei padroni, o di vendetta di questi ultimi nei confronti dei propri schiavi. Forse è per questo motivo che l’apostolo Paolo pensò bene di definire le dinamiche che avrebbero dovuto regolare i rapporti tra schiavi convertiti e padroni:
«Servi, ubbidite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo… sapendo che ognuno, quando abbia fatto qualche bene, ne riceverà la ricompensa dal Signore, servo o libero che sia. Voi, padroni, agite allo stesso modo verso di loro astenendovi dalle minacce, sapendo che il Signore vostro e loro è nel cielo e che presso di lui non c’è favoritismo» (Efesini 6:5-9).
Ma se tutti gli uomini della Chiesa erano uguali di fronte a Dio, perché i primi cristiani non tentarono di far abolire la schiavitù?
La Chiesa degli inizi era consapevole che la sua missione non consisteva nel forzare gli altri ad attuare cambiamenti radicali, bensì nel diffondere la buona novella di un nuovo regno, quello che Cristo fonderà al Suo futuro ritorno. Gesù lo aveva detto: «Il mio regno non è di questo mondo» ma di un mondo a venire (Giovanni 18:36).
Del resto, la schiavitù era un fenomeno così profondamente radicato nella società di quel tempo che nemmeno il Cristo avrebbe potuto far nulla per cambiare le cose. Non dimentichiamo che un uomo di nome Spartaco, un secolo prima dell’arrivo del cristianesimo, condusse una rivolta di schiavi che terminò con una brutale sconfitta e la crocifissione di ben 6000 di essi. Non era ancora tempo di riforme.
Certo, col tempo il cristianesimo si impose comunque come religione dominante nell’impero romano, ma sotto molti punti di vista quel cristianesimo non era quello predicato da Gesù. Tuttavia, dal momento che la cristianità primitiva si basava sugli scritti dei profeti e degli apostoli di Gesù, diversi principi insegnati dal Messia vennero comunque interiorizzati, innescando un processo che portò a un notevole miglioramento della società. L’abolizione della schiavitù nel mondo occidentale, raggiunta tempo dopo, deve il suo successo proprio ai fondamenti della religione cristiana.
«I cristiani furono i primi nella storia a muoversi in tal senso … In Inghilterra, William Wilberforce promosse dal nulla una campagna contro la schiavitù guidato unicamente dalla sua fede cristiana … Alla fine Wilberforce riuscì nel suo intento, e nel 1833 la schiavitù in Inghilterra fu finalmente bandita ufficialmente. Messa sotto pressione da altri gruppi religiosi, l’Inghilterra si mise poi a capo del movimento di repressione della tratta degli schiavi all’estero» (D’Souza, pag. 71). Solo grazie alla diffusione e all’interiorizzazione degli ideali cristiani sui rapporti interpersonali Wilberforce poté trionfare.
Gli enormi progressi raggiunti nell’ambito dell’affermazione e del rispetto dei diritti umani dall’epoca greco-romana ad oggi hanno permesso una radicale trasformazione della società.
«Il principio cristiano del rispetto verso il prossimo … può essere considerato l’elemento che ha portato alla nascita delle nuove istituzioni politiche occidentali, che non erano mai esistite prima, nemmeno nell’antica Grecia o nell’impero romano. Questo incredibile cambiamento di cui il mondo occidentale è stato testimone si chiama cristianesimo» (pag. 60).

Il trattamento riservato alle donne

Nella società del primo secolo la donna era trattata più come un oggetto che come un essere umano. «Nella civiltà greca, il dovere della donna era quello di ‘rimanere a casa e obbedire al marito’. Era buona cosa che la donna vedesse, sentisse e chiedesse il meno possibile. Non aveva la minima indipendenza, né le era permesso di avere un’opinione propria; inoltre, il marito poteva divorziare dalla propria moglie in qualsiasi momento, anche per il più futile dei motivi».
«La legge dell’antica Roma non riconosceva alcun diritto alla donna, che veniva considerata alla stregua di un bambino. Da piccola doveva sottostare alla potestà del padre, il cui potere era tanto forte da avere addirittura il diritto di decidere della vita o della morte della propria figlia, mentre quando si sposava passava sotto la tutela del marito, che poteva esercitare su di lei gli stessi poteri del padre.
«Era totalmente sottomessa al marito, e doveva essere sempre a sua completa disposizione. Catone il Censore, tipico esponente della Roma dell’epoca, ha scritto: ‘Se vi capitasse di sorprendere vostra moglie nell’atto dell’adulterio, potete ucciderla senza pietà e senza bisogno di processo’» (Barclay, pag. 218).
Le donne dell’antica Roma erano discriminate anche sotto altri punti di vista. «In confronto alla donna occidentale di oggi, la donna romana aveva pochissimi diritti di proprietà, se non addirittura nulli. I beni e il denaro che poteva ereditare legalmente erano limitati dalla legge stessa. Non le era permesso nemmeno lasciare denaro ai propri figli se questi erano sotto la patria potestà del marito» (Alvin Schmidt, How Christianity Changed the World, 2004, pag. 101).
Il giudaismo del tempo di Gesù era molto diverso da quello del tempo di Mosè. In precedenza, infatti, le pratiche religiose prevedevano l’osservazione dei principi contenuti nel Pentateuco, che difendevano i diritti delle donne, invece di mortificarle come accadeva ai tempi di Gesù. La testimonianza delle donne ebree, ad esempio, veniva considerata senza valore, motivo per cui non era loro permesso testimoniare in tribunale.
Come se non bastasse, le donne non erano considerate degne nemmeno di ricevere un’educazione spirituale. L’opinione comune era «Meglio vedere le parole della Legge (la Torah) bruciare piuttosto che in mano ad una donna… Un uomo che insegna la Legge alla propria figlia è come se stesse compiendo un atto impuro» (Schmidt, pag. 102).

Gesù ha rivoluzionato il modo di vedere la donna

Anche i discepoli di Gesù erano stati educati secondo la mentalità dell’epoca, come ci conferma un episodio riportato in Giovanni 4. Durante il viaggio che Gesù intraprese in Samaria insieme ai Suoi discepoli, questi decisero ad un certo punto di allontanarsi per comprare del cibo (v. 8), e quando tornarono da Gesù «si meravigliarono che Egli parlasse con una donna» (v. 27).
Il motivo di tale sorpresa è che nell’antica società ebraica era svilente per un maestro religioso essere visto parlare in pubblico con una donna, e quando i discepoli si accorsero che la donna con cui Gesù stava parlando era samaritana (v. 9) rimasero ancora più scioccati, poiché i samaritani non erano ben visti dagli ebrei.
Ma Gesù con quel gesto impartì ai Suoi discepoli un’importante lezione, tanto che essi stessi, in seguito, accettarono le donne come membri della comunità religiosa a tutti gli effetti, ed iniziarono ad insegnare e a predicare il vangelo sia a loro che ai samaritani, proprio come Gesù aveva comandato loro (Atti 1:8). Uno degli obiettivi di Gesù era quello di valorizzare la figura della donna e lo status della gente comune, offrendo loro le stesse opportunità di crescita spirituale, di dignità e di rispetto riservate a tutti gli altri.
«Attraverso le Sue azioni e i Suoi insegnamenti, che spesso hanno lasciato a bocca aperta sia fedeli che rivali, Gesù Cristo riuscì nell’intento di cambiare la mentalità maschilista che dominava allora, a causa della quale le donne greche, romane ed ebree erano state costrette per secoli a godere di una scarsissima considerazione all’interno della società, e di donare loro il prestigio che meritavano. A parole e anche a fatti, Gesù si è schierato contro le vecchie tradizioni dell’uomo dell’epoca che identificavano la donna come un essere inferiore dal punto di vista sociale, intellettuale e spirituale» (Schmidt, pagg. 102-103).
I discepoli di Gesù avevano imparato la lezione e avevano iniziato a seguire l’esempio del Maestro, come ci è confermato da un episodio in cui Pietro disse ai mariti che le loro mogli erano «eredi con loro della grazia della vita» (1 Pietro 3:7).
Anche l’apostolo Paolo aveva un’alta considerazione delle donne cristiane, come possiamo constatare dalla lettera che scrisse alla chiesa di Roma: «Salutate Trifena e Trifosa, che si affaticano nel Signore. Salutate la cara Perside che si è affaticata molto nel Signore» (Romani 16:12).
Le donne della Chiesa godevano di un prestigio che non avevano mai conosciuto prima dell’avvento del cristianesimo, tanto che venivano considerate al pari degli uomini in termini di dignità e rispetto. In altre parole «la cortesia, ovvero l’usanza di trattare le donne con rispetto, fu inventata dai cristiani» (D’Souza, pag. 70).
Purtroppo, in molti paesi del terzo mondo e in cui prevalgono altre religioni, le donne non ricevono lo stesso rispetto di cui godono invece quelle che vivono nei paesi di religione cristiana.

Trattamento dei bambini e dei neonati

I neonati e i bambini in generale sono gli esseri umani in assoluto più vulnerabili. In epoca greco-romana, i bambini venivano spesso trattati con violenza e freddezza, ma grazie a Dio il cristianesimo cambiò le cose. La storia racconta infatti che i primi cristiani allevavano i bambini con amore e si prendevano grande cura di loro.
«Il cristianesimo ha sottolineato la sacralità della vita umana, opponendosi strenuamente ed attivamente alla pratica pagana dell’infanticidio, allora largamente diffusa, che consisteva nel sopprimere volontariamente bambini appena nati, subito dopo il parto… per varie ragioni. I primi candidati erano quelli che nascevano con deformazioni o molto cagionevoli di salute, che spesso venivano annegati. Nell’antica Grecia, ad esempio, era raro persino per una famiglia ricca allevare più di una figlia» (Schmidt, pag. 49).
Nella cultura romana, «un padre ricco poteva decidere del destino del proprio figlio appena nato in base alla divisione che voleva fare dei beni di famiglia: se i figli tra cui dividerli erano troppi, la ricchezza che spettava ai singoli membri della generazione successiva sarebbe diminuita» (Sarah Pomeroy, Goddesses, Whores, Wives and Slaves: Women in Classical Antiquity, 1975, pag. 165).
Altrettanto crudele era la pratica greco-romana dell’abbandono dei neonati. «Nel caso i figli indesiderati non venissero uccisi subito dopo la nascita, capitava spesso che venissero abbandonati, letteralmente gettati via. Nella città di Roma, ad esempio, i bimbi venivano lasciati alla base della columna lactaria, sito appositamente fornito dallo stato presso il quale le infermiere si recavano spesso per nutrire i neonati abbandonati» (Schmidt, pag. 52).
Qual era la visione cristiana dell’abbandono dei bambini? «Lo vedevano come un infanticidio. Infatti i primi cristiani si opponevano fortemente a tale pratica, così radicata nella cultura di allora… ma non si limitavano a condannarla, facevano molto di più. Spesso, infatti, accoglievano quegli stessi bambini nelle loro case e li adottavano… La letteratura cristiana è ricca di episodi in cui si narra di bambini abbandonati e poi adottati da fedeli cristiani» (pag. 53).
Nella società ebraica del tempo di Mosè, Giosuè e Neemia, invece, le pratiche della soppressione e dell’abbandono dei neonati non erano nemmeno contemplate, e il contrasto tra queste due diverse culture viene evidenziato dallo scrittore Max Dimont: «Gli ‘eleganti’ greci ridevano degli ebrei poiché questi inorridivano di fronte alla fredda soppressione di un neonato solo perché la forma del suo cranio o del suo naso non rispecchiava i canoni greci della perfezione estetica» (Max Dimont, Jews, God and History, 1994, pag. 108).

Gesù come vedeva i bambini?

Gli ebrei fin dalla loro origine sapevano che tutti gli esseri umani erano fatti a immagine e somiglianza di Dio, e per questo rispettavano la sacralità della vita. Tuttavia, i discepoli avevano ancora molto da imparare in fatto di bambini, e Gesù mostrò loro come questi dovevano essere trattati.
Esaminiamo questo episodio narrato in Matteo 19:13-14: «Allora gli furono presentati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano. Ma Gesù disse: ‘Lasciate i bambini, non impedite che vengano da me, perché il regno dei cieli è per chi assomiglia a loro’». Nello stesso episodio riportato nel Vangelo di Luca viene usata la parola fanciulli (Luca 18:15).
In entrambi i racconti notiamo che coloro i quali avevano portato i bambini al cospetto di Gesù furono «sgridati» dai discepoli. Gesù, tuttavia, insegnò loro che i bambini erano importanti, e che dovevano essere trattati con amore e considerazione, e non essere bistrattati come esseri di serie B.
In seguito, l’apostolo Paolo scrisse alla chiesa di Efeso: «E voi, padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione del Signore» (Efesini 6:4).
Ai pagani convertiti della congregazione di Efeso, Paolo comandava di rompere in modo netto con la loro vecchia cultura. Questo monito «introduceva un nuovo elemento nell’ambito della responsabilità parentale, ovvero l’importanza dei sentimenti dei bambini, che in una società in cui l’autorità del padre (patria potestà) era assoluta rappresentava un concetto rivoluzionario» (The Expositor’s Bible Commentary, 1978, Vol. 11, pag. 81).
In Colossesi 3:21, Paolo sottolineò anche l’importanza di impartire ai figli un’educazione adeguata: «Padri, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino». Il cristianesimo ha introdotto dei cambiamenti radicali nei rapporti tra figli e genitori, esortando in modo particolare questi ultimi a non trascurare i sentimenti dei propri bambini, che rappresentano l’eredità di Dio, e come tali non devono subire la tirannia dei genitori.

I cristiani e gli ammalati

Nella società pagana del primo secolo, veniva mostrata scarsa compassione verso gli ammalati, e quasi nessuno muoveva un dito per aiutarli ad alleviare le loro sofferenze. Anzi, semmai il contrario. «Il sentimento della compassione umana, in particolare verso gli ammalati e le persone in punto di morte, era molto raro nell’antichità… poiché si scontrava con l’etica vigente a quel tempo e agli insegnamenti dei filosofi pagani. Per fare un esempio, Platone (427-347 a.C.) sosteneva che un uomo povero… impossibilitato a lavorare a causa della malattia dovesse essere abbandonato al suo destino e lasciato morire» (Schmidt, pag. 128).
Il pensiero di Gesù era esattamente l’opposto. I Vangeli contengono diversi episodi che descrivono l’approccio di Gesù nei confronti dei malati: «Gesù, smontato dalla barca, vide una gran folla; ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati» (Matteo 14:14). Gesù istruì i 12 apostoli a seguire il Suo esempio: «Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire i malati» (Luca 9:2).
Nel primo secolo non esisteva nulla di lontanamente simile agli ospedali così come li conosciamo oggi. Alcuni studiosi affermano che esistevano delle strutture di tipo ospedaliero, ma che erano riservate esclusivamente ai soldati romani, mentre la gente comune e i poveri in particolare non avevano diritto ad alcun tipo di assistenza sanitaria.
«Non esistevano strutture di assistenza per i poveri e gli ammalati prima della nascita del cristianesimo» (Schmidt, pag. 155). Col passare del tempo, sotto la spinta del cristianesimo, vennero costruiti sempre più ospedali. «Entro l’anno 750 erano sorti ospedali cristiani in tutto il continente europeo sotto forma di unità a sé stanti o affiancati ai monasteri» (pag. 157).
In tempi più moderni, in particolare nel XX secolo, si è assistito a una crescita esponenziale del numero di ospedali in tutte le nazioni occidentali, e il contributo che la cultura cristiana ha dato in tal senso è testimoniata dai numerosissimi ospedali a cui sono stati dati nomi cristiani, di fedeli o di maestri religiosi. E che dire del contributo del cristianesimo alla letteratura e all’educazione orale? Gesù era talvolta chiamato Rabbi, che significa Maestro (Giovanni 1:38).

Cristianesimo ed educazione

Gesù voleva che anche i Suoi discepoli diventassero dei maestri, tanto che affidò a loro questo compito: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate» (Matteo 28:19-20).
L’insegnamento era già praticato nel primo secolo, ma fu il cristianesimo a introdurre il concetto di corso misto, a cui potevano prendere parte sia uomini che donne, per permettere a tutti indistintamente di apprendere i principi della fede cristiana. Questo nuovo modo di concepire l’insegnamento pubblico era in netto contrasto con l’approccio greco-romano, in cui solo ai ragazzi maschi appartenenti alle classi abbienti veniva concesso il privilegio di ricevere un’istruzione.
L’influenza cristiana ha continuato a dare i suoi frutti in questo campo anche negli ultimi secoli. Un fenomeno che si è sviluppato all’esterno di un’Europa che era ancora paralizzata dalle caste, da dogmi e tabù clericali. Molte delle scuole e università pubbliche inglesi e americane, invece, furono fondate con il preciso intento di educare i giovani secondo i principi della Bibbia, oltre che formare pastori.
Ad esempio, «quando l’Università di Harvard … fu fondata ufficialmente nel 1650, nel suo statuto veniva chiaramente enunciato l’obiettivo di educare i giovani inglesi e indiani di questo paese alla cultura e alla devozione» (Kenneth Davis, America’s Hidden History, 2008, pag. 65).
Il cristianesimo può essere ritenuto il padre dell’istruzione. Come puntualizza Lee Strobel, un illustre professore inglese, «in buona parte d’Europa, così come in Africa, in Sud America e in molte altre parti del mondo, l’alfabetizzazione e la diffusione della letteratura sono coincise, non a caso, con l’approdo dei missionari cristiani» (Lee Strobel, The Case For Faith, 2000, pag. 220).

La filosofia del dare

In fatto di carità verso i poveri e i malati, gli atteggiamenti dei pagani e quello dei cristiani erano agli antipodi. I romani ritenevano che «non servisse a nulla sprecare il proprio tempo e le proprie energie con persone che non erano in grado di dare alcun contributo al valore e alla potenza dello stato romano, e i filosofi stoici non facevano altro che alimentare la convinzione che fosse disdicevole interagire con persone deboli, povere e oppresse» (Schmidt, pag. 127).
Il fatto che lo stoicismo fosse la filosofia dominante nella Roma del primo e del secondo secolo significava che gli appartenenti alle classi più basse potevano solo sperare di ricevere un qualche aiuto dalle autorità romane.
I cristiani invece, al contrario dei pagani, erano generosi e altruisti, donavano senza aspettarsi nulla in cambio, sia ai credenti che ai non credenti. L’apostolo Paolo scrisse: «Così dunque, finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti; ma specialmente ai fratelli in fede» (Galati 6:10). Questo nuovo esempio di vita spiccava così tanto che persino Giuliano l’Apostata, imperatore romano pagano, disse di invidiare i cristiani per questa loro qualità.
Anche ai giorni nostri l’etica cristiana continua a manifestare la sua natura generosa ed altruista. Studi e indagini attestano con certezza che chi crede nella Bibbia è molto più incline a compiere gesti di carità di quanto non lo siano atei e non credenti.

Gli effetti del cristianesimo

Oggi circa 2 miliardi di persone in 260 paesi professano la fede cristiana nelle sue diverse forme, che può quindi vantare il maggior numero di fedeli rispetto alle altre religioni nel mondo. Ovviamente ognuno di loro avrà un diverso grado di dedizione e di comprensione della fede, ed un diverso modo di metterne in pratica i principi, ma tutti quanti, chi più chi meno, hanno tratto beneficio dall’insegnamento biblico.
Ci sono addirittura degli atei che affermano che alcune delle caratteristiche più positive della nostra società, come ad esempio il sentimento di compassione, sono frutto dell’insegnamento di Cristo. I filosofi classici vedevano la compassione e l’umiltà come segni di debolezza, ma la verità è che sono qualità cristiane essenziali per una società solida ed armoniosa.
Tutti gli occidentali, cristiani e non, hanno tratto grande giovamento dall’impatto che il cristianesimo ha avuto nella storia dell’uomo, e se qualcosa di buono c’è nella nostra società odierna, lo dobbiamo a Gesù Cristo e alla religione che ha fondato. «Sia i credenti che i non credenti devono riconoscere il cristianesimo come il movimento che ha dato inizio alla nostra civiltà» (D’Souza, pag. 45).
Nel corso della storia gli insegnamenti di Gesù Cristo hanno subito innumerevoli attacchi proprio in nome della cristianità, la cui forza si è gradualmente affievolita a causa della diffusione di falsi principi e di teorie infondate, dell’ipocrisia e della debolezza dell’uomo. Tuttavia, chi vive nei paesi in cui vige l’etica cristiana può ancora godere del prezioso dono della libertà, della possibilità di scegliere e del rispetto del valore umano, opportunità che purtroppo non viene data a chi invece vive in paesi dove prevalgono altre religioni.
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